Ottorino Gurgo - La religione di Sciascia

Il 20 novembre di cinque anni fa, alle sette e dieci del mattino, Leonardo Sciascia moriva nella sua casa di Palermo, ucciso da una rarissima forma di leucemia. Nell'ultima lettera indirizzata a Gesualdo Bufalino, aveva scritto: “Ho l'impressione di stare a temprare una matita dalla punta sempre più fine, ma che non riesce più a scrivere”. Una “metafora stoica”, come lo stesso Bufalino l'avrebbe definita, per una fine che si avvicinava senza scampo, inevitabile conseguenza di un male irreversibile e crudele che nelle ultime settimane gli aveva impedito, quasi per una sorta di contrappasso dantesco, persino di leggere e di scrivere.

Si spegneva con Sciascia, sul finire di quel 1989 così ricco di memorabili eventi, la voce di una grande coscienza civile, di un intellettuale autentico e “disorganico”, capace di “contraddire e di contraddirsi”. In tempi di transizione e d'incertezza, come quelli che viviamo, è proprio a uomini come Sciascia che bisognerebbe richiamarsi per ritrovare un punto di riferimento. Ma di Sciascia si parla poco. Forse perché, se si prova ad andare oltre le strettoie dello stereotipo, il personaggio diventa scomodo, ingombrante. Vuole lo stereotipo che Sciascia si affidasse ad una visione se non anti-religiosa, certamente a-religiosa della vita. Fu davvero così? O non fu Sciascia esattamente l'opposto, e cioè un grande scrittore cristiano? Nell'individuare nell'opera di Sciascia, in tutta l'opera di Sciascia, i crismi di un'ispirazione cristiana palpitante e viva, sappiamo di entrare in contrasto con la gran parte dei suoi critici, anche dei più acuti.

Claude Ambroise, che tra gli esegeti di Sciascia è certamente uno dei più rigorosi, scrive: “L'opera di Sciascia non è acquisibile al cattolicesimo qual è, né al cattolicesimo quale qualcuno vorrebbe che fosse, e cioè conforme al discorso evangelico”. Ambroise non ha dubbi: “Sciascia è un illuminista “integrale” voltairiano che giudica il cristianesimo alla stregua di una irrealizzabile utopia”. E' davvero così? Lasciamo la parola allo stesso Sciascia e a quel che egli dice in due delle sue più significative interviste. Con Laura Lilli, nel 1980, Sciascia si lamenta del fatto che in Italia lo si consideri “un illuminista, peggio un voltairiano...”. E all'intervistatrice che, sorpresa, gli domanda: “Perché questo peggio? Proprio lei dice questo, lei che ha scritto Candido?”, replica: “Sì, forse il più apertamente satirico dei miei libri. Tuttavia non voglio Voltaire come padre. Intanto dell'illuminismo mi ha sempre più interessato Diderot che Voltaire. Ma poi, ecco, io non mi riconosco nel voltairianesimo che mi si attribuisce”. Un anno prima, intervistato da Andreina Vanni, aveva affermato: “Che cos'altro il potere ci prepara, in tutto il mondo, se non la morte? Coi resti del cristianesimo, coi resti del socialismo, coi resti di tutto ciò che l'uomo ha pensato di giusto e di bello, dobbiamo tentare di costruirci, dentro di noi, individualmente, perché ci possa poi servire collettivamente, un'ideologia della vita, una nuova utopia”. Il cristianesimo come utopia, dunque, come sostiene Ambroise? Certamente. Ma un'utopia tutt'altro che irrealizzabile se da essa può venire una speranza, forse l'unica, per la salvezza del mondo. All'interno dello stesso mondo cattolico, peraltro, il dibattito sulla cristianità di Sciascia è aperto. Così il gesuita Ferdinando Castelli, recensendo Todo Modo, fa sue le conclusioni di Ambroise e afferma: “Refrattario com'è ad ogni elemento soprannaturale, come può Sciascia percepire il “mistero” della Chiesa? La sua indefettibilità e santità? Le sue componenti e il suo destino? La sua maternità e le sue passioni?” Ma a contraddire Castelli, ecco un altro grande scrittore cattolico, Valerio Volpini, che, prendendo a spunto Il contesto, scrive: “Considero Sciascia uno degli scrittori moralmente più limpidi del nostro panorama letterario e uso questo consumato aggettivo per indicare la piena disponibilità intellettuale nei confronti della coscienza. Infatti il dato caratterizzante del suo laicismo sta nella schiettezza della rabbia e dell'invettiva con cui reagisce. Con cui giudica e manda, senza avvinghiarsi alle ambiguità del “distinguo”. E' un rigorista mai disposto a cedere qualcosa del mestiere di scrittore che non sia sofferto prima dalla sua privata umanità... Mettendoci a confronto delle sue pagine – anche per prendere misura del disaccordo ideologico – si resta sempre sorpresi del modo con cui la sincerità e l'onestà della parabola ci coinvolge, come assuma un significato e una tensione, come, cioè, la forza morale dell'uomo penetri oltre gli schemi e le formulazioni astratte”.

Quella che Volpini definisce la “forza morale” di Sciascia è, in effetti, la sua religiosità.

E' lo stesso Sciascia che, confidandosi con Marcelle Padovani, afferma: “...Nonché al cattolicesimo, ho notato la refrattarietà quasi assoluta dei siciliani alla religione. E non senza rammarico: perché se i popoli sono capaci di fare rivoluzioni religiose, sanno anche dare il via a rivoluzioni civili. La religione va vissuta giorno per giorno, in conflitto con noi stessi, e anche dolorosamente; non è passiva accettazione di una verità una volta per tutte rivelatasi e in cui credere soltanto attraverso atti di routine”. E', quella di Sciascia, una religiosità rigorosa, permeata di un'intransigenza giansenista quale si scorge nelle parole che in A ciascuno il suo egli attribuisce al vecchio professor Roscio: ”... Dico cattolici per modo di dire. Mai conosciuto qui un cattolico vero e sto per compiere novantadue anni... C'è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza dozzina di salme di grano maiorchino fatto ad ostie ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle spalle di uno in buona salute...”.

E a Parigi, come riferirà Alberto Cavallari, si lascia andare a questo sfogo: “Io sono poco siciliano dato che la Sicilia è così refrattaria alla religione... La religione m'è sempre apparsa come un porto sicuro, un luogo di rifugio, una spiaggia tranquilla nella quale amerei addormentarmi... La religione vissuta rappresenta per me l'aspirazione a trovare un centro, una beatitudine proprio mentre significa tormento, inquietudine, ricerca perpetua”. Una religiosità generica e vaga? Una “disponibilità” alla religione più che una “scelta”?

Non è così. Valgano per tutte due citazioni: la prima tratta dalla nota sciasciana a Il governatore della Giudea di Anatole France, dove del vecchio patrizio gaudente, protagonista dell'incontro con Ponzio Pilato, Sciascia scrive: “... Ricorda per amore; e sia pure per amore di una donna da trivio. Tutto ciò che è amore conduce al Cristo, al cristianesimo; e come Maria Maddalena ha seguito Cristo, così, seguendo l'amoroso ricordo di lei, Elio Lamia arriva a ricordare Cristo. Ed ecco, dunque, che lo scettico France e il suo scettico apologo si consegnano all'amore”.

Ma ancor più indicativo del “sentir cristiano” di Sciascia ci sembra quel che egli afferma in Alfabeto pirandelliano alla voce Cristiano. Scrive: “E' drammatico e traumatico l'impatto di chi autenticamente sente e intende il cristianesimo nella sua essenza evangelica (a parte la trascendenza e la dottrina che la regge) come una realtà che, di fatto, visceralmente lo stravolge, lo lega. E', a guardar bene, quel che accade a Pirandello, anima naturaliter cristiana, che si scontra con un mondo soltanto nominalmente, per apparenze e finzioni ormai inveterate e non più come tali riconoscibili, cristiano”.

Torna uno dei motivi ricorrenti nell'opera sciasciana: il “tradimento” del cristianesimo, la sua mancata realizzazione, la cinica finzione di coloro che solo  “nominalmente” si fanno considerare cristiani. E come non pensare che quel “naturaliter cristiano” con cui Sciascia definisce Pirandello, possa – per una sorta di trasposizione – applicarsi allo stesso Sciascia che, proprio a proposito di Pirandello, dice a Davide Lajolo: “ Con questo mio stretto conterraneo ho avuto, si può dire, un rapporto molto simile del figlio col padre”?

Da Pirandello a Manzoni: “Se mi si chiedesse a quale corrente di scrittori appartengo – disse una volta Sciascia – e dovessi limitarmi a un solo nome, farei senza dubbio quello di Manzoni”. Perché Manzoni? Nota Melo Freni che, “a parte ogni altra considerazione, non è improbabile che Sciascia ne ammirasse soprattutto l'evoluzione a cui era pervenuto dall'iniziale illuminismo che aveva adattato alla sua successiva visione cristiana della vita”.

E non è a caso che tutta l'opera di Sciascia si muova lungo tre direttrici “manzoniane”: dalla parte degli umili, dalla parte della verità, dalla parte della giustizia. Come non scorgervi, allora, i connotati essenziali di un cristianesimo vissuto, anche se non proclamato ed esibito? E non capire il senso di una frase detta a Vittorio Messori: “Leggo i Vangeli; e anche spesso. Ne tengo una copia in città a Palermo, e l'altra nella casa a Racalmuto: a portata di mano. Non c'è quasi giorno che non li riprenda. E' una regola, ormai. Qualcosa come ridar corda all'orologio perché non lo si trovi fermo l'indomani”.

 

(in “L'Informazione”, 20 novembre 1994)